Sébastien Brun e Simon Henocq li avevamo conosciuti un paio di anni fa con il loro progetto Parquet, ed il sentirli in questo Vallées, seppur sotto spoglie piuttosto diverse, rinforza l’idea che mi ero fatto delle loro capacità allora. Fidandoci della cartella stampa dovremmo trovarci di fronte ad un duetto fra chitarra e batteria, anche se il suono viene pesantemente destrutturato e rivisto, tanto da far sembrare ci sia una pressa completa ad estrudere tanta fantasiosa ritmica. Motorik sound sferzato con l’acido in Shore, disturbi ambientali in Falaises, Sebastien e Simon non smettono di stupirci riducendo la loro azione quasi a comprimere il loro agito, che ne esce irresistibile da una forgia mica da poco. Non c’è tregua, né struttura, solo momenti sonori che si susseguono in un percorso disturbato da balbuzie e cambi di ritmo che non fanno prigionieri, rendendoci all’erta e reattivi su ogni capovolgimento di fronte. Se la title track potrebbe lontanamente ricordare un dub da Alpha Centauri, con le successive Harbour e Bloc le cose si complicano ulteriormente, lasciando che la chitarra corra scapestrata come della no-wave tenuta a bada dal ritmico andare della batteria. Il suono avanza a sputi e scricchiolii, prima di distendersi solo per un secondo, interrotto da disturbi promossi dal duo. Lighthouse si fa tetra e minacciosa mentre Whisper è la definitiva chiusura di un cerchio robotico, storto e rugginoso, perfetto per scavare e trivellare orecchie e corpi con un suono smodato e potente.
Insomma, per chi ha amato il gruppo madre di certo un acquisto dovuto, per chi invece non ci si è innamorato si ricreda, la materia qui è ancora più a fuoco.
Simon Henocq e Seb Brun, due figure di riferimento della scena sperimentale francese, pubblicano Vallées, un disco che non è decisamente per tutti, ma interessante per chi è alla ricerca di suoni sperimentali contemporanei, in modo da costruirsi nuovi (s)punti interpretativi sulla musica non commerciale. Filosofico, sincopato, distorto e intrigante.
Esperti del suono e produttori engagé, dediti a sviluppare progetti innovativi, Simon Henocq e Seb Brun sono due figure di riferimento della scena sperimentale francese. Il primo è impegnato con il collettivo parigino Coax, il secondo invece con la casa discografica Carton Records, fondata nel 2009. Insieme formano un tandem audace, che, anche adottando un approccio radicale, si diletta a sperimentare nel ramo dell'elettronica, della noise e dell'ambient. Testimonianza ne è l’album Vallées, uscito da poco, appunto, per la Carton records. Nel lavoro, che è ricco di stimoli, la fanno da padrona i suoni sintetici e campionati, reminiscenti degli Autechre e di certi pezzi di Aphex Twin.
Il disco contiene dodici tracce, che, è bene precisare, non sono alla portata di tutti: "Coil", la metallica "Trim", "Shore", "Falaises", l’ambigua "Vers / Quiet", "Éléments", l’omonima "Vallées", "Harbour", "Bloc", "Fissure", l’atmosferica "Lighthouse", e, per finire, "Whisper". Alla loro base c’è un percorso creativo articolato. Utilizzando batteria e chitarra in una versione profondamente rielaborata, i due musicisti transalpini sono riusciti a creare uno stile sonoro grezzo eppure avvolgente, in cui la forma del suono è compatta, a tratti quasi callosa. Nei singoli pezzi affiorano suoni ipnotici, ritmi (post)industriali, molteplici interazioni in tempo reale e onde sonore volutamente distorte. Persino le pause ed i silenzi sono degli elementi per nulla casuali, con delle funzioni proprie.
Meno orientato alle atmosfere da ballo rispetto ai precedenti lavori e progetti quali Parquet, in questo nuovo disco il duo d’oltralpe si cimenta con suoni aspri, chiaramente astratti e leggermente oscuri, senza però mai abbandonare la tipica plasticità del ritmo del suono con le sue innumerevoli sfaccettature. Con l’intenzione di decostruire le convenzioni musicali caratteristiche delle scene ben più pop, Henocq e Brun si sono dimostrati abili nello sviluppare dei brani in cui si rende giustizia all’elemento dello spazio (non sempre adeguatamente considerato dagli artisti contemporanei). In più, le tracce sono pregne di tensione, favorendo in questo modo una concezione della musica elettronica che strizza l'occhio all’avanguardia.
Vallées è un’opera che può essere interpretata attraverso una chiave di lettura filosofica. Da un lato, la musica in essa contenuta è molto fisica, sulla scia dell’iter tracciato da Simon Henocq negli ultimi lavori da solista. Dall’altro lato, le scelte del duo francese si allontanano sempre più dal convenzionale mondo dance e della techno, per abbracciare in maniera piuttosto convinta ritmi sincopati, filtrati elettronicamente e rimodellati con l’utilizzo delle distorsioni, finendo per ottenere un risultato apprezzabile. Le atmosfere che ci accompagnano nell’ascolto posso finire per essere fredde (mai glaciali), a tratti dolorose, in alcuni passaggi un po’ contorte, eppure, nel complesso, rimangono intriganti e degne di ascolto.
Come detto, Vallées non è affatto un disco per tutti. Anzi, è lecito ritenere che si tratti di un album di nicchia su cui, anche per detta ragione, non è facile rilasciare giudizi. A chi nella musica cerca uno svago senza troppi pensieri, questo album finirebbe per fornire gli stimoli sbagliati, rischiando di risultare insignificante o persino inaccessibile. Viceversa, i singoli brani possono risultare d’interesse per chi è alla ricerca di suoni sperimentali contemporanei, in modo da costruirsi nuovi (s)punti interpretativi sulla musica non commerciale, e delle alternative di qualità, per provare a distanziarsi dai suoni orecchiabili e ormai prevedibili dei Daft Punk & co. Intendiamoci, è un esperimento ardito, in buona parte riuscito, ma siamo ancora lontani dal capolavoro.
Tatiana Paris Unveils a Haunting Cover of ‘Wonderful Life’
In a world saturated with fleeting sounds, French artist Tatiana Paris offers a moment of beautiful, melancholic pause with her reinterpretation of Colin Vearncombe’s 1986 classic, “Wonderful Life.”
Filmed live at the Olivier Debré Contemporary Art Center (CCCOD), this performance is an excavation. Paris strips the song down to its skeletal form, weaving a new sound from the frayed threads of nostalgia.
With a guitar that sounds like a forgotten, well-loved cassette tape, she conjures a fuzzy, almost frozen soundscape, a world where melody and rhythm are surrendered to a more visceral core. Her vocals, a mix of quiet strength, find a perfect echo in the serene yet powerful art of Claire Chesnier’s exhibition. It’s a performance that feels less like a whispered secret, … very intimate and haunting experience captured in a single video.
This sublime performance serves as a prelude to something even bigger: Tatiana Paris’s upcoming album, ‘t h a l l e,’ set to drop on November 14 via Carton Records. The album’s title, a reference to the rootless, leaf-less forms of lichens and algae, hints at its core philosophy…exploration of randomness and correlation.
Paris describes ‘t h a l l e’ as an attempt to find harmony in chaos, a collection of “small autonomous entities” where the familiar structures of songs are re-imagined. She masterfully navigates a sound that drifts between “noisy chanson and spectral minimalism,” painting a picture of a fictional meeting between avant-garde guitar legends Fred Frith, Ellen Arkbro, and Jules Reidy.
‘t h a l l e’ is available for preorder now.
In questa sessione live girata al CCCOD (Centro d’Arte Contemporanea Olivier Debré), l’artista francese Tatiana Paris reinterpreta la canzone “Wonderful Life” (1986) come un nastro leggermente consumato della sua infanzia. Mantiene la nostalgia contenuta nella melodia originale al centro di un suono di chitarra confuso e congelato, spogliato della sua armonia e dei suoi riferimenti ritmici. La forza vulnerabile e controllata che emana dalla sua interpretazione risuona perfettamente con la mostra di Claire Chesnier.
– Tatiana Paris – chitarra, voce
– Colin Vearncombe – composizione
– Pierre Dine – tecnico del suono
– OVVO / Jean-Charles Lacour – video
– Julien Philips – montaggio video
Oltre a questa performance video autonoma, Tatiana Paris pubblicherà il suo nuovo album t h a l l e il 14 novembre tramite l’etichetta francese Carton Records. t h a l l e parla di casualità e correlazione. Si muove tra la chanson rumorosa e il minimalismo spettrale, come un incontro immaginario tra Fred Frith, Ellen Arkbro e Jules Reidy.
Riceviamo e pubblichiamo.
In questa sessione live girata al CCCOD (Centro d’Arte Contemporanea Olivier Debré), l’artista francese Tatiana Paris reinterpreta la canzone “Wonderful Life” (1986) come un nastro leggermente consumato della sua infanzia. Mantiene la nostalgia contenuta nella melodia originale al centro di un suono di chitarra confuso e congelato, spogliato della sua armonia e dei suoi riferimenti ritmici. La forza vulnerabile e controllata che emana dalla sua interpretazione risuona perfettamente con la mostra di Claire Chesnier.
– Tatiana Paris – chitarra, voce
– Colin Vearncombe – composizione
– Pierre Dine – tecnico del suono
– OVVO / Jean-Charles Lacour – video
– Julien Philips – montaggio video
Oltre a questa performance video autonoma, Tatiana Paris pubblicherà il suo nuovo album t h a l l e il 14 novembre tramite l’etichetta francese Carton Records. t h a l l e parla di casualità e correlazione. Si muove tra la chanson rumorosa e il minimalismo spettrale, come un incontro immaginario tra Fred Frith, Ellen Arkbro e Jules Reidy.
Seb Brun en Simon Henocq bouwden al een stevige reputatie op binnen de Franse experimentele scene. Beide heren spelen samen in de band Parquet, waarin het kwintet van die band een mix maakt van techno en noiserock gericht op de dansvloer. Drummer Brun runt tevens het Carton-label, terwijl gitarist Henocq in diverse andere bands actief is. Voor Vallées speelt elk zijn vertrouwde instrument aangevuld met een grote hoeveelheid aan elektronica. Verwacht echter geen light-versie van Parquet want dit is toch wel andere koek.
Bij momenten behoorlijk experimenteel kraakt en schraapt en spookt het aan alle kanten om dan traag maar gestaag toch richting dansvloer te bewegen, maar dan eerder een imaginaire, die zich afspeelt in een hoofd waarin de hersencellen met elkaar in botsing komen in de drang om toch geen noot te missen die zou kunnen noodzaken om enige houten benen tot bewegen aan te zetten.
Art techno of IDM noemden ze dit soort deuntjes enkele decennia geleden, al zouden de fervente aanhangers er moeite mee hebben gehad dat het hier niet alleen om elektronica draait maar ook om gitaar en drums, waarbij de klanken al dan niet door de vervormers werden gejaagd. Abstracte muziek is het zonder dat beiden oog voor ritme en toegankelijkheid uit het oog verliezen. Daardoor klinken de twaalf nummers warmer dan initieel gedacht omdat ze niet zomaar experimenteren maar het allemaal behapbaar houden, ook voor minder geoefende oren.
Votre serviteuse (sic) a longtemps servi dans les rangs de Fennesz alors ce n’est pas Vallées qui va la faire sourciller. Bien au contraire. Gros gros kiffe sur cet album imaginé par Seb Brun (Parquet, Irène, Julien Desprez, Yoann Durant, Clément Edouard, Jeanne Added, Mamani Keita entre autres names à dropper…) et Simon Henocq. Les deux font un bout de route sans Parquet qu’on adore mais bien leur en prend de sortir Vallées.
Amateurs de son indus, Vallées est à l’oreille totalement jouissif, composé et interprété, sculpté écrirons-nous, par ces deux artisans du son. Sublime découverte qui nous a occupés tout un dimanche après-midi, et on en redemande en ce lundi matin tant les deux artistes œuvrent à nous ouvrir les neurones et les chakras. Résultat ? Démolition programmée des stéréotypes de la composition classique, rénovation de ce qu’on peut nommer musique électronique.
Et pourtant ce n’est pas notre Jean-François Riffaud préféré qui bichonne sa guitare, c’est bien Simon Henocq ! L’ électroacousticien et concepteur d’installations : le voici guitariste (« il observe, détourne et réinvente les objets et instruments de lutherie électronique pour donner vie à des performances singulières, où l’expérimentation occupe une place centrale » merci à toi pour la bio, label Carton Records !). En vrai merci pour ce son, merci à Seb et à Simon d’avoir conçu un si onirique et poétique univers de rave-brute-sonore-technologique-indus, enfin, merci pour les dates à venir de ce duo aux tracks magnétiques !
It has been a while since we talked about the records that dare to confront. Vallées, the latest collaboration between French experimentalists Seb Brun and Simon Henocq, falls squarely into those releases that shapeshift the boundaries of non-conventional music. It’s a well-organized yet disorienting listening experience that keeps the listener engaged from start to finish, and in that disorientation lies its great power. Brun and Henocq, long-standing figures within the French experimental music community, crafted an album that shakes with intensity, pulling threads from musique concrète, glitch, industrial, and noise while reasserting rhythm as the fractured skeleton of their sound. Listening to Vallées feels less like entering a cavern carved from sound itself. The duo relies heavily on processed drums and guitar, but the instrumentation is so manipulated, stretched, and disassembled that you can sometimes hardly point to a snare hit or a chord progression in the conventional sense. Instead, drums morph into seismic quakes, samples dissolve into shrill shards of metallic resonance. It’s a musical experience where familiar tools are atomized, rearranged, and presented as alien organisms. Many noise or industrial records retreat into sheer brutality, a wall of aggression that leaves little space for nuance. Brun and Henocq resist that impulse. Their sound is dense, and at times almost overwhelming, but it also makes room for contemplation. The compositions are full of air, full of tension that stretches and contracts. The silences matter as much as the eruptions.
The album pulses with rhythmic patterns, but more as a fractured, hypnotic undertow. In one moment, you’ll hear something like a decaying heartbeat rendered in metallic echoes, and then syncopated bursts that border on ritualistic drumming before collapsing into static. This rhythmic backbone docks the abstraction, ensuring that this record never drifts entirely into chaos. Vallées is pretty much a study in transformation. Sounds begin as one thing and end as another, sometimes violently, sometimes so gradually that the shift is imperceptible until you realize the sonic landscape has mutated entirely. A guitar string might become a drone, then a shriek, then a bass thrum. A percussive hit might morph into a cascading glitch. This constant flux mirrors the instability of our contemporary moment, the feeling that nothing remains fixed, that solidity is always under threat of erosion. Everything is sculpted with precision. There’s rawness, distortion, and grittiness, but it is very intentional. You sense the duo’s long history in the French experimental scene, their refusal to lean on gimmickry or trend-chasing. This is the work of musicians who understand the tradition they are building upon, musique concrète, industrial pioneers, noise visionaries, and the necessity of pushing forward into new territory. It resists easy consumption and refuses the neat structures of pop or the predictable tropes of electronic subgenres, yet it is not an act of nihilism. Purpose and beauty lie beneath the piles of noise. Not beauty in the conventional sense, but the beauty of risk, vulnerability, and honesty. It dares to show itself raw and unadorned, jagged edges and all.
For listeners accustomed to melody, harmony, and traditional songcraft, Vallées may feel alienating, but that is precisely its point. It challenges us to expand our understanding of what music can be, to sit with discomfort, to embrace sound not as background but as confrontation. It recalls the best of experimental art, not because it seeks novelty for novelty’s sake, but because it insists that the medium still holds unexplored possibilities. And yet, the album is strangely immersive. Once you surrender to its world, you find yourself carried along by its strange logic. The hypnotic pulses, the abrasive textures, the moments of near-silence, they create a narrative arc, one that bypasses the rational mind and operates on a deeper register. This material seeks your full attention, patience, and openness. It is not an album designed to please, but to provoke, unsettle, and move you in ways that are not always comfortable. In doing so, it demonstrates the relevance of experimental music as an artistic practice and a cultural necessity. It is a work that deconstructs conventions while affirming the body, a record that transforms noise into closeness, chaos into structure, sound into flesh. It is about standing in the middle of a storm of sound and realizing that the storm has its own language, pulse, and its own strange beauty. It is about giving up the need to control and allowing yourself to be carried by something larger, something elemental. Vallées is dense, raw, and sensual. It is a record that collapses boundaries and creates new ones. It is, in the truest sense, alive.
En se laissant aller à faire ce qui lui plaît, sans modèle ou sans chercher à s'inscrire dans un courant à la mode, Tatiana Paris présente une garantie de longévité. Je me réfère toujours à l'exergue de Jean Cocteau au début du chapitre D'une histoire féline du Journal d'un inconnu : "ne pas être admiré, être cru"...
J'ai reçu le second album de Tatiana Paris il y a plusieurs mois avec une forte envie de le chroniquer, mais comme cela arrive parfois la guitariste avait préféré que j'attende sa sortie officielle (Thalle sort là en numérique sur Carton Records, mais en vinyle avec pochette imprimée en riso seulement le 14 novembre). Cette redécouverte me fait le même effet que la première fois. Le facteur fait tomber d'excellents disques dans ma boîte, mais peu m'inspirent. Que ce soit du jazz, des improvisations, du drone, de la noise, des chansons, je finis par avoir l'impression de les avoir tous déjà entendus. Ils manquent cruellement du risque de déplaire. C'est cette même nécessité du danger qui me laisse actuellement dans un état de transition stationnaire lorsque je rêve de composer quelque chose de nouveau. À moins d'avoir besoin d'assurer fondamentalement sa subsistance ou d'entretenir l'amour de son public, qu'elle qu'en soit la taille, à quoi bon répéter les formules qui ont prouvé leur efficacité ?
En se laissant aller à faire ce qui lui plaît, sans modèle ou sans chercher à s'inscrire dans un courant à la mode, Tatiana Paris présente une garantie de longévité. Je me réfère toujours à l'exergue de Jean Cocteau au début du chapitre D'une histoire féline du Journal d'un inconnu : "ne pas être admiré, être cru". Le disque de Tatiana Paris est d'une sincérité absolue. On pourrait y voir une forme de minimalisme créé avec un bazar d'instruments (guitare préparée, voix, piezos, radio, acousmonium hertzien, synthé modulaire et divers objets), mais c'est simplement une musique tendre, à la fois légère et profonde, une intimité partagée comme une confidence versée dans le creux de l'oreille. Son "thalle" n'est pas sans feuille ni racine comme le sont les lichens, c'est un organisme intègre qui se suffit à lui-même. Les deux plus longues pièces, qui donnent le titre à l'album sont jouées aux grandes orgues par Rachel Langlais, des drones tranquilles qui mettent en valeur les miniatures chuchotées qui les suivent. À l'affût non de ce qui est original, mais personnel, je suis enchanté par cette musique de chambre dont l'épatante proximité transmet une vibration épidermique.
P.S.: il y a deux ans j'avais enregistré l'album Moite en trio avec Tatiana Paris et Violaine Lochu (de longues pièces instantanées carrément incisives !), et chroniqué Gibbon, son premier disque, que j'avais déjà adopté.
A cinque anni di distanza dal loro esordio discografico, i She’s Analog tornano con No longer, not yet, un secondo capitolo che conferma la maturità artistica di questo trio italiano fra i più interessanti nel panorama della musica sperimentale contemporanea.
Stefano Calderano (chitarra, percussioni), Luca Sguera (piano, Prophet, percussioni) e Giovanni Iacovella (batteria, elettronica dal vivo) hanno affinato ulteriormente quella ricerca sonora che li aveva resi protagonisti già con What I Bring, What I Leave del 2020. Il loro approccio musicale si basa su una prassi compositiva per sottrazione, dove ogni elemento superfluo viene eliminato per lasciare spazio all’essenziale: l’interazione spontanea tra i tre strumentisti.
No longer, not yet si presenta come un “film istantaneo” di quaranta minuti che tenta di cristallizzare il movimento nella sua forma più pura. Il titolo stesso evoca quello spazio liminare in cui la musica prende forma, sospesa tra il distacco da ciò che si lascia e l’apertura verso l’ignoto.
Il disco si apre con Tingle, forse il pezzo più difficile dell’album, dove le note sembrano galleggiare in una rete vibrante che tiene insieme jazz sperimentale e le intuizioni più raffinate del movimento chiamato oltreoceano “post-rock”. La produzione, curata da Luca Tacconi ai Sotto Il Mare Recording Studios, restituisce una spazialità che amplifica ogni dettaglio timbrico senza mai risultare invadente.
Narrow pass dimostra come il trio abbia imparato l’arte della sintesi: in appena due minuti riesce a trasportarci in paesaggi sonori invernali e aspri, mantenendo però quella tensione narrativa che caratterizza il loro cinema dell’orecchio.
Il brano centrale Danse macabre rappresenta forse il momento di maggiore intensità dell’intero lavoro. Qui Calderano sembra letteralmente sciogliere le corde della sua chitarra mentre attorno si costruisce un reticolo scarno e segmentato di suoni elettronici, batteria frantumata e pianoforte preparato. La sensazione è quella di una ragnatela sonora che si contrae e si espande secondo logiche proprie, in perfetta sintonia con l’estetica del collage che ha guidato la composizione dell’album.
Slow, kick introduce invece una dimensione più orizzontale, dove i suoni crescono come piccole eruzioni vulcaniche. I field recordings infantili e giocosi che popolano la traccia creano un contrasto straniante con la base ritmica dilatata, dimostrando come il trio abbia assimilato la lezione dei maestri dell’ambient senza perdere mai la propria identità.
L’ascoltatore più navigato potrà riconoscere echi dei Storm & Stress nella frammentazione ritmica, l’approccio timbrico della etichetta norvegese Hubro, e perfino suggestioni del Paul Bley più visionario. Ma il combo She’s Analog non si limita alla citazione: la loro musica dialoga con Jeff Mills, flirta con i Battles e ricorda i Supersilent nei momenti di maggiore astrazione.
La capacità di sintesi del trio emerge anche dall’uso sapiente dell’elettronica. Iacovella non si limita a suonare la batteria: i suoi live electronics fungono da vero e proprio collante architettonico, mentre Sguera alterna il pianoforte acustico alle texture sintetiche del Prophet con una naturalezza disarmante.
Il disco raggiunge il suo apice con blu, il brano che occupa l’intero secondo lato del vinile. Qui tutte le istanze estetiche del trio convergono in una narrazione frastagliata ma profondamente coerente. È il momento in cui gli She’s Analog dimostrano di aver trovato la quadra tra ricerca formale e comunicabilità, tra complessità strutturale e impatto emotivo.
No longer, not yet non è un album che si svela immediatamente. Richiede tempo, attenzione, la disponibilità a farsi guidare in territori sonori non sempre familiari. Ma è proprio questa sua natura sfuggente a renderlo prezioso: ogni ascolto rivela dettagli precedentemente nascosti, connessioni inedite tra i brani, sfumature timbriche che arricchiscono l’esperienza complessiva.
Il masterizzazione di Rashad Becker (veterano di artisti come Tim Hecker e Ben Frost) restituisce un suono cristallino che valorizza tanto i momenti più rarefatti quanto le esplosioni di intensità, mentre l’artwork minimale della band stessa rispecchia perfettamente l’estetica del progetto.
Con No longer, not yet, She’s Analog conferma di essere una delle realtà più stimolanti del panorama italiano ed europeo. Il loro jazz sperimentale contamina e si lascia contaminare, creando un linguaggio personale che parla tanto agli appassionati di improvvisazione radicale quanto a chi cerca nuove forme di narrazione sonora.
Un disco che merita tempo e attenzione, ricompensando l’ascoltatore paziente con un’esperienza sonora unica e profondamente coinvolgente.
C’est d’la Musique Rasoire -mais géniale-, à écouter depuis ta Table Basse jonchée de Records -donc proche-, Coolax comme c’est pas permis. C’est Seb Radix, de Lyon, qui conçoit quatorze titres où lo-fi, énergie punky débraillée, pop de travers et mélodies sensibles se tirent la bourre, sous le joug de guests de renom. On entend par exemple, sur ce 1977, Andy Kerr de Nomeansno, Mike Watt des Minutemen ou encore John No de Triclops. Et encore, je résume. Toujours est-il que Jack Sharp, en 20 sec’ chrono, instaure une trame vive, poppy mais appuyée, qu’on aurait aimé plus longue. Qu’à cela ne tienne, SMS (feat. Andy Kerr) dégaine un fatras noisy/country aux ritournelles aussi soignées qu’écorchées de par leur enrobage. Concluant, et on est encore loin du compte. La Memoire Sélective, chanson in French vaguement yéyé, fait mouche à son tour. Le registre est large, bien serti, instrumentalement ouvert. On s’en réjouit. Baby Fight, riffeur, destroy, balourde une demi-minute en rut. Puis Cactus Fleuri, entre textes bellots et ruades nerveuses, soudaines alors que le reste se veut sage, persuade autant. Il crie, mais reste beau. On est preneur, comme tu le seras.
Voyage, retenu, où les rimes amusent et disent des choses vraies, en remet une lampée. 1977, c’est une valeureuse galette. La fin du titre s’emporte, puis rideau. Alors Ashtray (feat. Mike Watt), stylé et soutenu, dépose une autre perle. A chaque balise, de toute manière, on s’attarde avec un enthousiasme non feint. Le band joue bien, sincère, sans esbrouffe aucune. People (feat. John No), cuivré et acéré, twiste dans le rude. Merveilleux. C’est indé, ami d’écoute. Indé et puis c’est tout et c’est déjà beaucoup. Le Chant Des Perdrix, de plaine, sème fleurs folk et sifflotements légers. Il est, comme les autres, décoré avec panache. Superbe. M&M’s, tirée punk minimale, crédite le Rhodanien. Une fois de plus. Mind The Bomb suit, dans la vigueur itou, en rafales jusqu’à pas même 40 secondes. Et ça suffit.
Dans la foulée Aire D’Autoroute Vide, dénudé, bluesy, brille la vie. Damned, ce 1977 est un sans-fautes! Pince A Linge, en 1’11, y glisse de la lo-fi teintée à la no-wave. A la conclusion échoit Police Milice, où un sifflet tranquillou s’invite. Posée mais expressive, puis plus éraillée, voilà une chanson terminale qui tout en se faisant apprécier, grandement, met fin à une série de haut vol. Une rondelle faite maison, à la Radix évidemment mais avec des convives de premier ordre, porteuse de compositions au potentiel très largement au dessus de la moyenne.
RZWD – Gaps (Carton Records) – On Gaps, RZWD tell us they aimed to “craft dance noise club music on their own terms, pushing the limits of what a live band can be in achieving this”, they go on to tell us that “the core idea behind Gaps was to use developed themes as a starting point for further variations and exploration within Dance noise club music. This time, the instrumentation includes bass and an ever-expanding, mutating layer of modulation” – scrub all that though, this sounds far more instictive than they make it sound, if this is dance music then the dancing is going to be wildly all over the place and well, if you like dance music by all means tune in and dance like a maniac, more importantly, if you don’t like dance music then definitely tune in! This is for everyone, this is other rock, this is pointy, this is sharp, this is delightfully fractured, warm, inviting, this is fluid in an awkwardly good way. It is mostly electonic, it feels very organic, analogue in terms of texture and yes that might be one of several contradictions just made but who cares, bottom line here is this is really really good – mutating layers of modulation indeed, played beyond rigid tempo measurements. Recorded live as a live band, that bit is crucial to what is going on here, recorded in 2023, released in the Autumn of 2024 and sent to us in the second week of 2025, it might have figured somewhere on that (rest of the) best albums of ’24 if it had landed here in time…
Polonais, RZWD se plait à dévier. Avec GAPS les trois hommes, déboulonnés, servent une électro que Diesel feat. Danielius Pancerovas fait grincer, frétiller, breaker et syncoper bruitistement. La « DANCE NOISE CLUB MUSIC » du groupe le décale à n’en pas douter, LED House en renvoyant une version techno obsédante aux motifs lunaires. Là encore on coupe la dynamique, à plusieurs reprises, pour une issue prenante aux recoins triturés. Euro Track V2 [feat. K. Freeze O.], aérien puis en secousses plombées, s’inscrit dans la même qualité insoumise. Outskirt Dub…vire dub, spatial, apaisé. La palette de RZWD s’étend, concluante. On plane, pour le coup, avant de se livrer à d’autres tumultes. Hantel V3, d’ailleurs, castagne avec force noise et vrilles soniques vertigineuses.
Sur la suite Trigger Fitt V2, dub dépaysant, perché et strié lui aussi de séquences lacérées, poste un vacarme indus-noise et j’en passe à décorner un cerf. RZWD, dont l’ouvrage voit le jour chez Carton Records, truelle ensuite un Muttercoke drone aux atours presque orchestraux mais éloignés, personne n’y verra d’objection, de toute normalité. Sa fin retombe, après cette embardée arrive Footwalk qui en ruades psychiatriques sonne la fin des débats, sacrément attrayants, à s’envoyer maintes et maintes fois avant d’en faire le tour et d’en capter toute la riche matière.
Rozwód, a band based on the outskirts of Poland’s metropolises Wrocław and Toruń, create music that sounds recycled, juxtaposing elements of the rock tradition with electronics recalling the likes of My Disco or Radian. Trance motifs, monotonous ambient passages, and sonic interventions in the background are balanced by a dense ‘rock’ sound albeit one achieved with a set of instruments unusual for the genre.
La chanson comme performance (on a hâte de voir les concerts), un homme, une trompette et des machines sur des terres inconnues et pourtant si accueillantes, si instinctivement évidentes pour le corps et l’intellect.
Omertà is comprised of five musicians from a handful of projects that line the interior of France’s experimental underground, notably La Société Étrange, releasing limited edition pressings on labels like Standard In-Fi, Desastre, and La Novià. Each of the members, and their associated groups, possess krautrock’s stealthy octave climbing and open feel, dub’s intimate incorporation of analog electronics and generally hazy air, and a bit of post-punk’s willingness to try anything out.
While Collection Particulière is a record from a cohesive collective, this is no doubt Florence Giroud’s band. She wrangled the cast together and played the lead as the sole singer on their self-titled debut, and now on their second album, Collection Particulière. On the brambly eponymous effort from 2017, Giroud and Omertà entertained their more avant-garde curiosities, whereas Collection captures the band figuring out what worked best from those experiments, piecing it all together with loose grooves to create attractive and kinetic songs.
Giroud’s vocal delivery is collected, slipping from spoken passages to articulate, soft melodies with a conversational ease that recalls Histoire de Melody Nelson. Even with a bare knowledge of French, Giroud’s variation in affectation, attitude, and emphasis is captivating. Jonathan Grandcollot replaces Mathieu Tillyon drums for Collection Particulière, adding a light and consistent backbone, while Romain Hervault and Jérémie Sauvage’s bass is prominent in the mix, driving everything with firm, repetitive but active basslines. Tactile synths from Romain de Ferron provide melodic volleys and lead-ins, filling in with atmospheric swells. Taken as a whole, each track is an exercise that sees all parts settling into a groove, gaining the elastic energy of Ege Bamyasi or some of the less proggy albums on Silence Records.
Part of the Standard In-Fi/France/La Nóvia extended family, Omertà have traded in the small-hours murk of their debut for a chunky backbeat, mesmerising, acid-tinged grooves and a greater urgency in Florence Giroud’s sung-spoken delivery. ‘Moments In Love’, which even has a chorus of sorts, is their loveliest song to date and Collection Particulière is perfectly formed.
En ce moment c’est difficile d’écouter autre chose que le nouveau disque d’Omertà
Omertà est un projet initié en 2013 par l’artiste Florence Giroud avec plusieurs amis à elle, qui se trouvent (ou se trouveront) être des membres des groupes Tanz Mein Herz, Société Étrange et France : Pierre Bujeau (guitare et basse), Jérémie Sauvage (pareil), Romain Hervault (basse), Romain de Ferron (claviers et synthés) et Mathieu Tilly, depuis remplacé à la batterie par Jonathan Grandcollot. Un premier disque intitulé Omertà est sorti en 2017, il est formidable mais c’est le deuxième, coédité début juin chez Zam Zam Rec et Standard In-Fi, que je vous recommande aujourd’hui. Je n’arrive pas bien à m’expliquer la beauté bouleversante de Collection Particulière et j’ai eu du mal à me frayer un chemin pour en parler. En fait j’essaie d’écrire dessus depuis plusieurs jours en l’écoutant en boucle, et je ne sais toujours pas trop comment bien le décrire pour vous donner envie de cliquer sur play chez vous, si ce n’est en vous disant que c’est de la musique dont la puissance poétique et tragique me terrasse, tout en me donnant un immense espoir : c’est comme si j’étais enseveli de pétales et de flocons, accablé mais béat, béni.
Dans le package mp3 en vente sur le Bandcamp, on trouve un pdf où Florence Giroud et Pierre Bujeau expliquent l’histoire du projet et de ce disque, qu’ils présentent comme beaucoup plus “pop” que son prédécesseur, qui bouillonnait de possibles et saturait l’air, là où celui-ci semble cultiver une sobriété volontairement contrainte, et dont se dégage une espèce de justesse qu’on ne voit pas venir tout de suite. Par justesse, je ne veux pas dire perfection de la forme ou virtuosité pop, car ce qu’on entend sonne plutôt comme des fragments cousus ensemble, rapiécés à la manière d’une rapsodie grecque – Florence Giroud parle d’ailleurs de “bribes” et de “visions”. Cette justesse serait plutôt de l’honnêteté, de la sincérité, une nudité des émotions et de l’expression : y a que ça, rien d’autre à voir, mais c’est déjà tout, si je puis dire. Ces musiciens habitués à la densité et au débordement réussissent ici à fabriquer une ossature plutôt sèche, qui tient la route malgré les privations, ou disons l’étroitesse du cadre. Bujeau explique que la conception des morceaux commence en général par la basse, mais que les phrases se distribuent ensuite entre les différents instruments, et que pour “atteindre une certaine clarté”, les membres doivent se mettre d’accord sur ces relais en élaborant des partitions – pas des partitions classiques, certes, mais des feuilles de route censées mener vers cette clarté.
Et en effet la clarté advient, mais c’est pas du tout une clarté chiante à la Heidegger, elle est en fait peu lumineuse, comme la clarté d’un pavillon de chasse vide ou d’un appartement de proche-banlieue sans vis-à-vis, l’été. Une clarté avec du dépit, un sentiment de passé mais un passé très vif, un souvenir actif, net et neuf d’une sensation oubliée ou plutôt qui n’aurait pas eu le temps d’être bien éprouvée jadis, et qui retrouve sa chaleur et ses couleurs aujourd’hui. Des couleurs passées intenses dont émane une vie, un groove sans pareil, qui râle et rechigne un peu tout en prenant tout le monde par la main. Une “musique sans référence particulière”, dit Pierre Bujeau, mais ça m’a quand même rappelé pas mal de choses que j’adore, mais plus à l’état d’ombres, voire de coïncidences, comme si elle partageait avec Can, Melody Nelson, Catherine Ribeiro/Alpes ou Tortoise la même “zone de flottaison”, un terme que je mets entre guillemets car c’est Florence Giroud qui l’emploie dans le pdf. L’incroyable force de ces compositions, c’est qu’elles ne citent jamais bassement leurs influences, on dirait presque que c’est un hasard si elles y ressemblent, si elles arrivent dans cette zone : c’est un chemin pris à l’envers par des voyageurs venus de contrées lointaines et plus bruyantes.
Il y a ces musiciens qui jouent avec génie, nuances et amitié, mais c’est Florence Giroud qui de toute évidence fait basculer le disque du statut de “super album” à celui de chef-d’œuvre, de splendeur, de créature si singulière qu’il devient difficile d’écouter autre chose une fois qu’on a plongé dedans. Cette jeune femme est artiste plasticienne, elle fait des sculptures, des installations, et ce qu’elle appelle des opéras qui mêlent éléments visuels, mise en scène, voix et musique : le Omertà de 2017 était justement un volet de ses opéras. Elle a beau dire qu’elle n’est ni comédienne ni chanteuse, sa présence donne l’impression qu’elle est totalement faite pour ça, élue par les dieux de la voix pour parler-chanter sur les instrumentaux de ses camarades. Je ne sais pas comment dire : a priori je ne suis pas très amateur des flows déclamés plus ou moins spoken-word, interprétés voire scandés de façon plus théâtrale que musicale. D’ailleurs Giroud ne fait pas tout à fait ça, disons qu’au début ça peut y ressembler, mais très vite ça devient autre chose, elle sort d’elle-même et du triste spectacle de la performance expressive-subjective pour atteindre en quelques mots un total état de grâce. Dès le premier morceau (le deuxième en fait, puisqu’il y a une intro instrumentale), dès ses premières lignes, j’ai eu en tête les mots qui forment le titre de ce track qui pourtant n’a rien à voir, signé du rappeur français west-coast Alpéacha : “J’arrive classique”. Florence arrive classique, sans doute plus du côté de la Grèce classique, façon oracle de la Pythie de Delphes, mais elle est déplacée au début du XXIe siècle dans une maison du Forez ou un atelier d’école d’art.
Elle se pose très précisément, se place à la hauteur de ses moyens, ne va pas tenter des prouesses vocales de professionnelle mais sait en même temps faire des trucs qu’une pro ne saurait peut-être pas exécuter et elle parvient à faire chanter, faire sonner la voix parlée, sérieusement c’est trop beau de réussir ça. Son flow humble se nourrit pourtant d’impudeur, à la fois dans le propos des textes et dans son rapport au micro, la vulnérabilité qu’elle y engage, et là j’en suis devenu quasiment addict. L’avant-dernier morceau, avant la brève outro, clôt le disque en apportant un tout petit peu plus d’intensité sonore que ce qui précède, avec de la guitare saturée, et sur la rythmique chaloupée en pleine gloire Florence en vient presque à “kicker” sans que ça fasse ridicule et sans même d’ailleurs qu’elle prétende réellement rapper, même si elle place des phases qui à leur manière sont des punchlines : “rien à foutre du bien, j’ai tourné le dos à à mon cul coupable, parfois ça tombe bien”. Sur le morceau d’avant, une reprise très sourde de “Moments In Love”, elle dit aussi (en empruntant ses mots aux Proverbes de l’enfer de William Blake) “la prudence est une vieille fille riche, et moche”, en marquant une pause qui me fume complètement entre “riche” et “moche”.
Je m’arrête là, je voulais parler du disque de Sophie Marceau qui a été une lointaine inspiration de Collection particulière, mais je crois que c’est pas utile. Allez écouter ce disque qui ne plaira pas à tout le monde, qui clivera sans doute une partie des lecteurs et lectrices de Musique Journal, mais qui pour moi est une de choses les plus dingues sorties ces dernières années en France, et qui me rend fier des musiciens de mon pays. Bravo Florence, Pierre, Jérémie, Romain, Romain, Jonathan, Mathieu, je vous connais pas mais vous entendre faire cette musique me fait déjà vous aimer.
What an arresting cover, the naked singer holding up the ace of hearts and the inevitable ace of spades, “the most powerful cards in the deck”, as weathered metaphors for the prismed verve contained therein, compass points for the emotional minefield of first love, first heartbreak and the limbo between.
That metered percussive of “Amour Fou” scaffolding those Theseus-threading guitars, that curling theremin-like mirage that glows around Florence Giroud’s vocals. Sung in her native language, lyrically my schoolboy French is missing a lot of the finer details; but boy her voice is lovely, skips effortlessly on through. Kind of half intoned / fluidly spoken, her words indelibly burn, cling loosely to the projected mood, suddenly find themselves pleasantly swept up by those melodic thermals.
A sunny dispersion that sparks in ambering accents and folding contours, throws accelerate on the stippled slap of “Mortel” that sees Giroud’s vocals possessively tumble to glints of “Histoire De Melody” hypnotically caught then bayoneted in sizzling synthetics.
Skulks a hushed seduction on ‘La Chambre De La Fumée Et Des Fleurs’ as that hazy halo of instrumentation licks the word fall, sways smokily to that cellar-stepped bass. A dark delight that leads to “Moments In Love,” a surprise homage to the Art Of Noise original re-constituted with a William Blake twist. Its origins are uprooted to flow more dub-like in a brushed reggae-like elegance spiked in a loose concussive unwind.
Sunflowers a diffusing light that “Kremer & Bergeret” spectrally feasts on in lush spiralling harmonies and elasticated funk, all ending on a Durutti Column-esque high of “Le Magnifique”.
Another priceless ZamZam find for sure.
85/100
Fondato nel 2014 dal batterista Seb Brun, il settetto lionese Parquet arriva all'album di debutto molti anni dopo i primi passi, avendo alle spalle due EP e un album abortito nel 2019, dal cui materiale ha germinato questo strepitoso lavoro pubblicato dalla label francese Carton, Sparkles & Mud, sintesi di più argomentazioni. Elementi electro, techno, noise rock, kraut perfettamente assemblati convergono in questi nove brani strumentali irresistibilmente ritmici, costruiti su intricati moduli percussivi che vanno stratificandosi. Se ci fosse la possibilità di creare in laboratorio un golem interspecie tra Battles, Liars, LCD Soundsystem e El Guapo ci troveremmo davanti qualcosa di molto simile ai Parquet. Pochi album rock hanno saputo coniugare dancefloor e sperimentazione. Questo è uno.
Andrea Prevignano